mercoledì 27 aprile 2016

Lacrosse Love

Mi scuso per aver lasciato il mio blog momentaneamente in pausa ma gioco a lacrosse “all the time”. Lacrosse è uno sport di squadra. Ogni componente ha il suo bastone con una rete, pocket, in cima, leggermente concava così che ci possa stare la pallina, la quale è tutto tranne che morbida. Per far si che la pallina resti nella rete, bisogna tenere il bastone in movimento e intanto correre. L’obiettivo è fare goal in una porta che è più o meno metà di una da calcio, lavorando di squadra (rispettando le regole).
Ho deciso di giocare a lacrosse per una serie di motivi esilaranti e -come direbbero qua-  naïve (ingenui), che credetemi non volete leggere in un libro. Si, si, anche per l’ esperienza puramente americana e poi perché un giorno Hannah me l’ha anche suggerito che avrei dovuto provarlo. “Sure, but I suck at sports.” Le ho detto sulla seggiovia quando sciavamo insieme. Hannah è sensibile come un sasso, non preoccuparti, mi ha detto, non sarai l’unica perché molte delle persone che si iscriveranno saranno freshmen, nessuno sarà capace. Grazie Hannah, i freshmen hanno quattordici anni, io ne ho diciassette e sono pure alta. Benissimo, starai in difesa, e poi i freshmen hanno quindici anni.
Gioco in attacco, con due freshmen che sono alte come me e sono anche bravina. Non mi piace rispettare le regole, ma quello è colpa del mio DNA italiano. Proprio oggi parlando su skype con la mia famiglia, mamma mi ha ricordato che gli Americani credono che le regole siano fatte per essere rispettate, al contrario degli Italiani che sono convinti che le regole siano fatte per essere infrante. Poi si chiedono perché l’Italia sia più caotica e divertente, questi civili.
Lacrosse è uno sport di squadra esclusivamente americano, ragion per cui in Italia nessuno lo sente nominare o men che meno sa cosa sia. Quando ho detto ai miei amici italiani che avrei fatto lacrosse ho specificato di guardare video su You Tube per capire cosa sia; ora cercherò di spiegarlo molto semplificato ma guardate video su You Tube. Scrivi lacrosse e appaiono frammenti di partite di lacrosse maschile, che è completamente diverso da quello femminile. I ragazzi hanno meno regole per non dire che non ne hanno proprio, e letteralmente si mettono il bastone tra le ruote. Coloro che stanno in difesa hanno un bastone lungo il doppio degli attaccanti e dei centro campisti, ma quando si spaccano a vicenda per proteggersi o farsi strada, credetemi la lunghezza del bastone diventa relativamente significativa. Sembra troppo divertente, davvero TROPPO: è come football ma è un gioco molto veloce perché viene fermato solo in caso di falli significativi, se la palla cade chissenefrega, si raccatta al volo, e questo grazie a dio vale anche per girls lacrosse. I ragazzi hanno un casco e una marea di protezioni, noi giochiamo con il bastone, i cosiddetti googles per proteggere gli occhi, il paradenti e come divise delle gonnelline molto fashion. Abbiamo 47 regole e quella che odio di più è che dobbiamo stare a una certa distanza da colei che ha la palla. Ci sono due  momenti in cui regolarmente invidio gli esseri maschili: quando ho il ciclo e quando gioco a lacrosse. Poi, il ciclo me lo tengo purtroppo, ma con lacrosse a volte mi lascio andare. Ieri avevamo la prima vera partita e una delle avversarie era entrata in modalità cozza. Male, l’ho stesa senza troppi complimenti. Ho tirato su lo sguardo perché ovviamente l’arbitro stava perdendo un polmone a furia di fischiare, e ho visto Abby, dietro di lui, che stava cercando di trattenere le risate con tutte le sue forze. A quel punto sono scoppiata a ridere e lei dopo di me, e devo dire è stato il momento più divertente di tutta la partita.
Una delle mie amiche, Jaida, non è più nella squadra e il mio cuore era abbastanza spezzato, perché io e lei eravamo come una micro squadra nella squadra. Durante la seconda partita avevo davvero paura perché la vedevo sorridere in panchina, ma non era fisicamente in campo con me; abbiamo perso drammaticamente 11-3 ma ho segnato due volte. È una sensazione che mi ero dimenticata o che non avevo mai conosciuto, perché  a basket facevo schifo e non credo di aver mai segnato. Felicità e soddisfazione, ma soprattutto non individuali come in scherma o sci: vedere l’intero team sorridente e saltarti addosso finché l’arbitro non comincia a strillare è bellissimo, motivante. Sentire l’allenatrice che anche se è decisamente furiosa nei tuoi confronti perché hai infranto certe regole giorni prima, urlare come una pazza per complimentarsi, sentire Abby che è la giocatrice più portata del team varsity (quelle brave) urlare “I LOVE YOU DILETTTTTA” da bordo campo, fa sentire letteralmente contenta. Ho fatto solo due goals, non è niente di che considerando che siamo state battute, ma hanno avuto un significato gigante. Amo lacrosse e la mia squadra.
Come in tutti gli sport che siano di squadra o che siano individuali, nel liceo in America lacrosse è diviso in due squadre, JV e Varsity. JV sta per Junior Varsity: di solito è composto da persone che non hanno mai giocato prima o che magari hanno giocato ma non sono particolarmente portate. Varsity sono persone bravissime e con esperienza alle spalle quindi di solito Juniors e Seniors, gente della mia età. Hannah per esempio, che è quella che mi ha proposto di giocare, è in Varsity, e così moltissime tra le mie amiche. Io non ho mai giocato prima e anche se sono Senior non posso essere con loro nemmeno volendo. Quando ho realizzato ciò, dopo essermi strappata il quadricipite durante le selezioni e aver messo i piedi per terra e smesso di sognare, mi sono rattristata. In JV sono tutte babies, sembro come la loro madre.

Sono bimbe e sembro come la loro madre, sì. Quello a cui non avevo pensato è quanto possano essere fantastiche comunque; ancora una volta mi sono fasciata la testa prima di essermela rotta. Non potrei chiedere per una squadra migliore, per delle compagne più dolci e divertenti. Poi ovviamente io sono grande e soprattutto italiana quindi ho tutto il loro amore a prescindere. Sono felice, gioco e gioco per vincere anche se poi non succede, e lacrosse mi mancherà così tanto in Italia. Credo che mi trasferirò a Milano e renderò la squadra che non si sa come è nata lì grandiosa e sarò una di quelle persone che si guardano storto in aeroporto perché trasporterò un bastone di ferro dall’aspetto interessante avanti e indietro, Italia-America.

sabato 27 febbraio 2016

February Break from reality

E’ il 27 febbraio, sono negli Stati Uniti da sei mesi e quattro giorni.
Un paio di settimane fa la temperatura esterna era di -26 gradi Celsius e of course io ero in giro con la mia amica Marie perché dovevamo comprare un muffin per Lucìa, la quale la prossima volta il muffin -se lo vede- lo vede in cartolina perché siamo quasi morte. Il mio concetto di freddo è decisamente cambiato. Comunque, non posso lamentarmi più di tanto perché era solo un weekend: l’anno scorso la temperatura era così bassa quasi ogni giorno; faceva così freddo che la scuola restava chiusa. Di conseguenza a Febbraio c’è per tradizione, obbligo, una settimana di vacanza concessa nella speranza di poter prendere una pausa dall’inverno sfiancante andando in Florida, Messico o anche solo a casa dei vicini se hanno il riscaldamento più potente. Quest’ inverno caldo ha reso tutti più rilassati quindi il bisogno di fuggire era meno strillante. Io ho deciso di spostarmi a Sud di tre o quattro stati, per andare a trovare dei miei cugini che però chiamo zii a Princeton nel New Jersey. Siccome Simone insegna all’università di Princeton, college bellissimo e prestigiosissimo, ho assistito a delle sue lezioni. Mooolto interessante Dante in inglese, non credevo potesse funzionare ma invece funziona eccome, e anche bene. A cena abbiamo mangiato a un tavolo con dei ragazzi americani che studiano italiano e sono rimasta colpitissima da come parlano bene, dopo solo sei mesi di lezioni: hanno l’accento Americano con le erre tutte morbide, ma sono fantastici, con una voglia di imparare travolgente; credo che dovrebbero essere guardati come modelli da ragazzi della mia età ma anche da molti adulti.
Mercoledì invece sono andata a Long Island, in un altro college chiamato Hofstra, con Ilaria, e ho assistito a greco e latino, tradotti in inglese.  Insomma sono persone super brillanti i miei zii/cugini. Giovedì sono stata con una ragazza italiana che conoscono loro, Ginevra, che studia ingegneria (non so come si scriva) lì a Princeton, ed è grandiosa perché fa di tutto: studia, lavora, fa una marea di sport. Mi ha portato con lei a fare rock climbing (arrampicata) con i suoi amici. Una gran fatica ma anche un gran divertimento; dopo di che mi hanno inghiottito nella vita di college americana e sono andata in mensa con loro. Penso sarebbe davvero super cool se avessero i dormitori e tutte quelle storie da film pure in Italia. Poi io ero sempre stata traumatizzata dalle mense scolastiche alle elementari quindi sotto sotto avevo l’ansia pre-mensa, ma in realtà quei kids hanno una varietà di cibo incredibile e di buona qualità che mi ci trasferirei.
Ieri io, Ilaria e Virginia, la loro bimba, siamo andate a New York per vedere “School of Rock” a Broadway. E niente, il caos, i colori, le voci della città mi hanno rapita di nuovo. È la città più bella di sempre, la amo di un amore incondizionato: non mi sono mai sentita così felice come quando ci ho messo piede il 23 agosto 2015 e il 26 febbraio 2016. New York è arte. Il musical era bellissimo, e sono diventata molto gelosa di quei bimbi prodigio che recitavano pieni di energia. Confido che Virgi, con il suo americano perfetto e la sua grinta diventi una di loro.

Dopo sei mesi negli Stati Uniti e una vacanza pazzesca sono immensamente grata, ma anche un po’ malinconica: rivedere dei miei parenti, italiani veri, mi ha lasciato un po’ di voglia di Italia. È passato un po’ senza vedere nessuno. Manca poco alla fine, meno di quattro mesi, ma adesso sento un grande bisogno di casa. L’America è spettacolare, ma non è comunque Italia in nessun modo. Si vive meglio qua, ma ho capito che si vive perfettamente se con persone con una testa europea, italiana. Io, piccola di fronte a questo mondo enorme, qua oltreoceano mi abituo in fretta e nonostante ami i cambiamenti è sempre difficile voltare pagina. Fa sempre più paura pensare a quanto il tempo voli. Come dice Simone, la vita è correre e aspettare. Adesso sento di voler correre a giugno anche se so che aspettare di correre indietro qua negli States sarà difficile. E’ un caos immenso e io non sono una persona ordinata.

martedì 16 febbraio 2016

L'amore per Jaime e per l'hockey.

L’America è un paese competitivo e dinamico.
Lo sport spesso viene prima dello studio perché fare sport e farlo da vincenti, è tutto.
Fa troppo freddo per il calcio? Si gioca a basket. Fa troppo freddo per il football? Si gioca a hockey.
Quando avevo qualcosa come tredici anni avevo avuto un lampo di genio insieme al mio Nikki e avevamo pensato per circa cinque secondi di provare hockey su ghiaccio. Niente da fare, troppo tardi per iniziare. Non era stata una grande delusione esclusi i primi tre nanosecondi dopo l’annuncio, e dopo le mie avventure sui pattini di domenica sono incredibilmente contenta che fosse troppo tardi perché avere equilibrio o comunque muoversi senza rischiare un trauma cranico per me non può funzionare.
Ho scoperto però che hockey è divertentissimo da guardare: è come l’America. Si divertono, litigano, ridono, vincono, perdono, amano, odiano, lottano, cadono, si rialzano e alla fine si battono il cinque.
Finita la parte poetica, è seriamente uno sport esplosivo da guardare, non oso immaginare da giocare. Ci sono regole ma il gioco viene fermato rarissimamente. Non c’è fuori campo e quando i giocatori escono ed entrano non ci si fa nemmeno caso, perché tutto continua. Pattinano così velocemente che sembra volino. Non importa se si gela,  bisogna andare a supportare i ragazzi (o anche le ragazze che però ovviamente sono meno violente, ma non meno veloci) ed essere parte del gioco e si spera della vittoria- la squadra di hockey dei ragazzi è l’unica squadra della mia scuola per cui si possa sperare nel trionfo ma questa è un’altra storia.
Ovviamente le partite di hockey hanno lo stesso valore dal punto di vista di eventi sociali di quelle di football, ma andarci senza Jaime perde di significato. Jaime è la prima persona con cui ho fatto davvero amicizia, sulla porta della classe di fisica; si prende cura di me e della mia felicità e si preoccupa che io viva l’esperienza al meglio e al completo, ragion per cui ha deciso di introdurmi all’hockey.
Siccome le partite della scuola più di una volta alla settimana non erano abbastanza, ha comprato due biglietti “for a real game”: squadra del New Hampshire, i Monarchs, contro una squadra canadese.
Dopo una cena  molto americana a base di hamburger da mezzo chilo in un pub che però era chiamato “Queen of England”, i Monarchs perdevano due a zero, finché due minuti e mezzo prima della fine hanno fatto un goal. Jaime mi è saltata addosso, lo stadio era “on fire” letteralmente, nonostante fossero ancora sotto di un punto e mancassero solo due minuti alla fine. In pratica ero l’unica senza speranza. Ho imparato che la speranza deve essere l’ultima a morire: il timer correva velocissimo, e la gente iniziava già a uscire dallo stadio. 26 secondi prima della fine, i Monarchs hanno fatto un altro goal. 2-2. Non credevo che guardare uno sport potesse essere così coinvolgente, ma pure io ero impazzita di gioia insieme ai giocatori, Jaime e il resto dello stadio.
Poi hanno perso 3-2 durante i supplementari, ma questa è un’altra storia. Le sorprese non finiscono mai oltreoceano.
Al ritorno abbiamo fatto due tappe: una in autogrill, dove il genio qua presente ha deciso di comprare una lattina firmata Starbucks, double shot of energy alle undici di sera, l’altra in riva al lago: le luci del mio paesino, Wolfeboro, si riflettevano perfettamente sullo specchio d’acqua. Era difficile capire quale fosse il cielo e quale il lago, distinguere i sogni dalla realtà.

lunedì 1 febbraio 2016

Coraggiosamente (sciatrice) con Kasey.

Sembra ieri ma era ottobre, che la mia amica Alex mi aveva dichiarato che l’unica ragione per cui non passa l’inverno piangendo a causa del freddo e della neve è il basket. E io, che non ci avevo mai pensato prima le avevo risposto “credo proprio che la mia ragione di sopravvivenza invernale sarà la squadra di sci”.
Mi e’ sempre piaciuto sciare: quando ero piccola mi spaventava da morire, ma con il tempo ho imparato a trasformare la paura in adrenalina. Ho imparato a trasformare la sensazione di impotenza che avevo e spesso ho ancora in cima alla pista in energia.
Non ho mai amato sciare cosi’ tanto da pensare di iscrivermi alla squadra agonistica del liceo qua in America. La verità è che ero così spaventata all’idea di neve costante da dicembre a marzo che avevo bisogno di una ragione di amarla quella dannata neve, così mi sono convinta di amare lo sci più di ogni cosa, mi sono convinta di non aver paura del giudizio altrui e mi sono iscritta.
La parte ironica nella storia e’ che se ha nevicato, ha nevicato per due giorni. Niente allenamenti di sci a dicembre a causa di mancanza di neve, allenamenti su quella che chiamano neve artificiale ma che in realtà e’ ghiaccio puro e tremendo per tutto gennaio.
Fatto sta che non ho nemmeno bisogno di amare la neve che non c’è, ma mi sono davvero innamorata dello sci.
L’America e’ basata sulla competizione, per cui si gareggia e si gareggia per vincere. Quaggiù vivo in un film, ma fino a un certo punto: purtroppo non sono la fanciulla che inizia uno sport e si rivela campionessa olimpionica dopo cinque minuti che e’ in pista.
Io cado e non vinco proprio per niente: scio abbastanza bene ma ho un rapporto conflittuale con slalom speciale. Il martedì abbiamo allenamento di slalom gigante e il mercoledì slalom speciale. Come direbbero qua, slalom gigante “is as fun as hell”: e’ una combinazione di alta velocità e tecnica ed e’ moooolto più facile di slalom speciale. Penso che speciale sia divertente ma mi spaventa da morire e per di più è parecchio difficile ma o tutto o niente. Il venerdì abbiamo le gare e mi stanno insegnando a crescere: sto imparando che si sopravvive anche con tutti gli occhi della squadra puntati addosso, e che anche se sembra, il countdown prima della partenza non causa infarti o attacchi di panico (più o meno). Sto imparando che vincere fa felici, ma anche fare del proprio meglio e che un po’ di competitività mi rende solo più tosta.
Tutto questo non annulla il mio odio per le gare, non solo di sci. E’ proprio grazie all’odio per le gare e soprattutto per le gare di speciale, che ho conosciuto Kasey. Ha un anno meno di me e potrei dire che mi ha adottata, inoltre pure lei è nuova nella squadra quindi abbiamo in comune anche il fatto di essere felici anche solo se non veniamo squalificate alle gare. E’ stata un po’ rude all’inizio, ma quando si è aperta raccontandomi le sue storie di vita in seggiovia ho iniziato ad amarla. E’ grazie a lei che ho realizzato quanto mi mancherà questo posto, questa vita, quest’avventura. Eravamo in macchina a parlare di vita e di morte da circa un paio d’ore, aspettando che fosse ora di uscire con gli altri pargoli della squadra, quando si è improvvisamente rabbuiata:”I’m not gonna be on the ski team next year”. Le ho chiesto come mai, e mi ha risposto che lascerà perché tanto io non ci sarò, e senza di me la squadra non le interessa “and I’ll miss you so much, why don’t you stay”.
Se potessi Kasey. E’ stata dura lasciare la mia vita italiana, molto più di quanto pensassi, ma ora mi chiedo quanto farà male lasciare la mia vita americana, che non potrò rivivere mai più? Quanto sarà dura salutare amici e non poter dire loro che li rivedrò presto?
Non credo di volerlo sapere.
Ho passato la metà del programma, ora mancano meno giorni al mio ritorno di quelli che ho speso qua, fa un po’ troppa paura come cosa. Dicono che negli Stati Uniti si pianga due volte: quando si arriva e quando si torna; credo sia verissimo anche se grazie a Dio il ritorno non l’ho ancora vissuto.
Ho capito che la chiave di questa esperienza è avere coraggio; in aereo diretta a New York ho visto la nuova edizione di Cenerentola solo perché piace alla mia mamma italiana (si avevo bisogno di partire per un anno per imparare ad apprezzare il suo essere bizzarra e non solo) e mi ricordo che la frase centrale, perfetta per quel momento e perfetta per la vita è ‘abbi coraggio e sii gentile’.
Il coraggio lo ho, sulla gentilezza giuro che ci sto lavorando.
(Buon Febbraio, qua ogni singolo mese che passa a un valore inestimabile)

martedì 29 dicembre 2015

23 Dicembre 2015


Non mi sembra che sia Natale fra due giorni perché la scuola negli USA è un parco divertimenti più o meno ogni giorno per cui essere in vacanza è più
noioso che andare a scuola. Negli Stati Uniti giuro che odio le vacanze,
perché le mie giornate diventano incredibilmente monotone e noiose a parte
ovviamente i giorni che esco con i miei friends o con la family. Sta
mattina mi sono svegliata tardi, sono scesa a fare colazione e la mia host
sister mi ha salutato mentre stava seduta sul divano. E il fatto di vedere
lei invece che la mia sorellina italiana mi ha fatto pensare alla mattina
di Natale, quando non vedrò i miei, il nostro albero finto con decorazioni
solo ed esclusivamente rosse, la stessa carta regalo da duecento anni,
mamma che impazzisce perché si dimentica di cucinare qualcosa di
fondamentale, papà che fa le foto a me, Matilde e il fantastico albero
finto. Per cui ho inspirato profondamente, mangiato un po' di cereali
e poi ho deciso di farmi la doccia dopo aver annunciato a Sam
"I'll be back unless I'll die in the shower" lei ha
sorriso e mi ha risposto che contava sul fatto che avrei saputo
sopravvivere alla doccia. Sono entrata in bagno e sono scoppiata a
piangere, così forte che mi sono spaventata da sola e così forte che a Sam
è venuto un infarto perché ha pensato che non poteva essere possibile che
io stessi davvero morendo nella doccia. È accorsa e mi ha abbracciata e mi
ha ordinato di lavare via la tristezza. Non ci sono riuscita proprio per
un tubo; la mia nonna americana mi ha telefonato e sono scoppiata a
piangere di nuovo, ancora di più quando mi ha detto che mi ama. La
giornata poi si è evoluta per il meglio: sono andata a fare un po’ di acquisti natalizi con Sam dopo di che siamo andate, io lei e Jess (la mia host mum) a vedere un film molto carino al cinema, ‘Brooklin’, che racconta la storia di una ragazza Irlandese che si trasferisce a New York perché annoiata dalla sua vita e che dopo una sfiancante homesickness iniziale capisce che ‘home’ non vuol dire solo ‘Irlanda’, ma vuol dire anche ‘America’. Me in pratica. Casa è l’Italia, perché lì ci sono i miei amici e la mia famiglia assolutamente insostituibili, ma negli USA vivo decisamente meglio. Per dare un tocco finale alla serata mi sono fermata dal mitico Starbucks per comprare il mitico Mocha Frappuccino con panna montata, che non ho idea di cosa sia in realtà ma è fantastico; menomale che aprono Starbucks a Milano così almeno quello non mi mancherà. La ragazza alla casa me l’ha passato ‘4,73 $’. Ho  provato a pagare con tutte e tre le carte di credito e ovviamente non funzionavano manco a pagarle: la macchinetta continuava a strillare “ERROR BIIIIIP ERROR” e io iniziavo a sudare. Voi vi chiederete perché mai non ho pagato quegli stupidi quattro dollari con delle stupide monete come ogni comune mortale e io vi rispondo “perché non avevo neanche mezzo dollaro, bensì solo due euro”. Ho avuto problemi a prelevare per cui zero cash. Ho guardato la ragazza terrorizzata e prima ancora che potessi iniziare perfino a pensare come scusarmi per averglielo fatto preparare ma per doverlo lasciare lì causa bancarotta, lei ha fatto un sorrisone e mi fa “You’re all set.It’s a gift, Merry Christmas!” Io, povera piccola Exchange Italiana senza soldi ho pensato “quattro mesi qua e non capisci ancora una parola”, perché mi sembrava impossibile che mi stesse sul serio regalando il mio Mocha Frappuccino con panna  montata e gocce di cioccolato. A quel punto è intervenuta mia madre ospitante offrendosi di pagare ma la fanciulla ha insistito che sarebbe stato il suo regalo di Natale per me. Ero così felice che ho deciso di conservare il bicchiere di plastica.  Non penso che dimenticherò mai  quella ragazza, il suo sorriso e quanto mi pareva buono, ancora più del solito, il suo regalo.

Estate o Inverno?

È il 13 dicembre grazie a dio non è un venerdì e io sto andando in Vermont
per una gara di scherma. Vermont, New Hampshire, Maine sono stati
sconosciuti e se sono conosciuti è perché l'inverno è eterno, ad
Halloween la neve ha già attaccato e continua fino a fine marzo. Mi sa che
Vermont, New Hampshire e Maine non hanno più una "scusa" per
essere conosciuti perché la neve ce l'hanno solo sulle cartoline
dell'anno scorso e sulle montagne che sono troppo a nord (?) per
essere raggiunte. La gente fa morire perché a metà ottobre si lamentava
del sicuro e imminente arrivo della temibile, noiosa neve e adesso a metà
dicembre è preoccupata per questo sconvolgente ritardo della magica,
divertente neve. Poi c'è qualcuno che dice di stare tranquilli, che se
non nevica ora finirà di nevicare più tardi del solito, magari ad aprile o
già che ci siamo maggio, chi lo capisce questo tempo?
Mi sono iscritta alla squadra di sci della scuola si perché amo sciare, ma
anche perché ero spaventata da tutta la pressione causata dall'arrivo
della neve e avevo bisogno di una ragione valida per amarla e viverci in
mezzo. Ovviamente i miei piani non sono andati come il previsto e la
squadra di sci è solo una squadra perché non possiamo andare a sciare. Fa
perfino troppo "caldo" per creare la stupida neve per cui invece
che andare a rotolare giù per le montagne con un paio di sci attaccati ai
piedi, rotoliamo per il dolore con le scarpe da ginnastica dopo gli
allenamenti giornalieri intitolati "dryland" con la squadra di
indoor track, che in pratica è atletica al chiuso (ovviamente ridotta alla
parte che riguarda il correre perché lanciare il giavellotto o il martello
dentro scuola non pare una buona idea a nessuno).
La neve, che ci sia o che non ci sia, turba gli animi e i corpi.

È il 21 Dicembre, ufficialmente primo giorno di inverno. Sabato 19 ha
nevicato: avevo il sesto senso che mi tormentava perché il 19 dicembre,
compleanno della mia sorella italiana, nevica sempre e comunque, ovunque
mi trovi. Ho la tendinite al ginocchio sinistro e mi ha sabotato il
weekend: sono rimasta chiusa in casa due giorni incapace di camminare, di
pensare di sciare o di fare scherma (l'allenamento di sci programmato
per sabato in ogni caso era saltato causa zero neve quindi sarei dovuta
andare a combattere con la spada e con la lancia ma no, meglio il divano
con il ghiaccio sul ginocchio). L'unica cosa che ho fatto è stata
uscire per un'oretta con uno dei pochi amici veri che ho, Alex. A
Wolfeboro però non c'è assolutamente niente da fare e nemmeno da
inventare a parte passare ore dentro un dunkin donuts d'obbligo.
Dunkin' Donuts è una catena enorme di bar in cui vendono ciambelle
buonissime e "caffè" con dentro tanto di quello zucchero che poi
ci credo che gli americani hanno problemi con il loro peso. È l'unico
negozio parte di una catena che c'è a Wolfeboro: tutti gli altri sono
privati, ma dunkin donuts qua in New England (non so nel resto) è ovunque,
a me spaventa. Non puoi morire di fame quaggiù, perché anche nei posti più
remoti c'è una casetta arancione e fuxia in cui sai di poter trovare
un calorifero ma soprattutto energie tramite ciambelle. Molti lo odiano
proprio perché è come un parassita, io lo amo perché è il mio
intrattenimento New Hampshiriano. Non so cosa fare? Vado da dunkin donuts,
ovvio. Di solito ci vado a piedi perché è cinque minuti da casa ma visti i
miei problemi con il ginocchio Alex mi ci ha portata in macchina, cosa
abbastanza vergognosa. Andare a mangiare ciambelle a cinque minuti da casa
a piedi in macchina fa sentire persone orribili. Ma ho la tendinite quindi
sono perdonata, o no?
Comunque, bevevo la mia cioccolata con panna parlando con Alex e dal
momento che faccio una gran fatica a guardare negli occhi le persone
mentre parlo io, guardavo fuori dalla finestra. Si gelava ma c'era il
sole. Nei due minuti in cui Alex mi ha risposto, ho smesso di guardare la
fantastica strada fuori dalla finestra e ho guardato lui. Mi sono rigirata
quando era il mio turno di parlare e nevicava.
Manca poco svengo e mi va di traverso tutto quanto, altro che tendinite.
Alex non sembrava stupito per niente e se la rideva mentre io guardavo
sbalordita fuori cercando una spiegazione plausibile. Me lo aspettavo che
avrebbe nevicato, ma nonostante sia qua da quattro mesi e sia sempre così,
non mi aspettavo che il tempo cambiasse così rapidamente e drasticamente.
Ha nevicato una mezz'ora, poi è tornato il sole. Il New Hampshire
cambia umore più velocemente di quanto lo faccia io, non puoi perdere il
ritmo se no non lo ingrani più; stavo per scrivere che magari qua la
leggenda della neve ad agosto prende vita, ma ad Agosto purtroppo io non
sarò più in questo paese fantasticamente lunatico.

domenica 29 novembre 2015

Tre giorni (e zero notti) a Washington D.C.

L'organizzazione italiana che mi segue nel mio anno negli USA si chiama
WEP, mentre la mia organizzazione partner qua in New Hampshire si chiama
CHI. Non tutti gli exchange in America hanno la stessa organizzazione, ma
buona parte dei ragazzi in New Hampshire, che siano con WEP che siano con
qualcos'altro, hanno la stessa che ho io. La CHI quaggiù organizza
almeno un'attività al mese per permettere a me e ai miei amici
exchange di riunirci e l'attività di novembre era una gita di tre
giorni a Washington DC. (Per chi non lo sapesse, vero Gino? (Sai che i
love You), Washigton DC sta al confine con la Virginia, East Coast, non
nello stato di Washigton che è Nord West)
È stato pazzesco, grazie parents italiani che mi avete finanziata.
Venerdì sera sono andata a cena a casa di Claudio (messicano) con gli altri
ragazzi, poi io e Laura (belga) siamo rimaste a dormire lì e ci siamo
dilungate a parlare della vita e perché no pure della morte, già che
c'eravamo, fino alle 11.30 di notte. L'unico problema era che il
giorno dopo alle 2.30 del mattino eravamo in piedi "pronte" ad
andare all'aeroporto di Boston in direzione DC.
Siamo arrivati tutti e ventinove (sette italiani, gli altri da vari paesi)
a Washington alle 11 del mattino e abbiamo iniziato a girare e visitarla
in lungo e in largo subito. Giusto il tempo di fare pipì e ci siamo
ritrovati dentro il Congresso, dove creano le leggi della terra dei sogni.
A primo impatto la città in se è stata un po' deludente: mi aspettavo
New York la vendetta, ma è tutta un'altra storia; Washington è molto
europea e non ci sono grattacieli perché nessun edificio può essere più
alto del Washington Monument che assomiglia a un obelisco.
Sono finita per innamorarmene in ogni caso, sarà che è America.
È ampissima, ogni strada è gigante e questo è senz'altro un punto a
favore. Giuro che se non ci fosse il rischio di essere investita solo a pensarci volteggerei senza sosta in mezzo alla strada o comunque ci farei ballare un esercito di ballerine visto che io non sono molto portata.
DC è anche strana perché è molto collinosa quindi alcuni palazzi
sembrano alti ma in realtà sono solo in collina. In ogni caso il Washigton
Monument si vede da ogni angolo della città e la vista da lassù è magica,
mozzafiato.
Il Congresso, la corta suprema, il mausoleo, e ovviamente la
casa bianca, sono bianchi e puliti: Abramo Lincoln svetta all'interno
di quello che assomiglia a un tempio greco e fa venire voglia di seguire
le sue orme ed essere grandi come lui anche solo per avere una statua
grande come la sua. L'unica cosa che farei diversamente rispetto ad Abramo Lincoln sarebbe assicurarmi che la statua venga costruita prima della mia morte, così da piazzarmi di fronte e dire a chiunque passi "EHI SONO IO QUEL GIGANTE VEDI QUANTO SONO IMPORTANTE, AMMIRAMI"
Quando sono arrivata lì io e Marie ci siamo guardate
e"wow it exists": la statua di tutti i film ci osservava con il
suo sguardo fiero. Avrei tanto voluto sedermici in braccio ad Abramo
Lincoln.
Io, Marie, Daniel e Juliette il secondo giorno abbiamo perso la metro, le porte si
sono chiuse in frettissima. Noi quattro a terra con aria stupita, gli
altri che ci facevano ciao con le manine mentre il treno sfrecciava via e
Claudio con lo zaino chiuso mezzo fuori. Siccome non è come a Milano che
la metro passa ogni due minuti bensì ogni venti, ci siamo persi il cambio
della guardia al cimitero militare, ma i nostri amici ci hanno rassicurato
dicendo che era molto molto noioso e che probabilmente è stato più
entusiasmante aspettare nella fantastica metro. Hanno reso l'idea in
pratica.
È un luogo tosto se realizzi che oltre a essere bello, è un cimitero. Io
non ho realizzato: mi risulta impossibile che siano morte così tante
persone, e quasi tutte in guerra. Era una distesa di lapidi bianche e
pure, che sembrava infinita, surreale. Prego davvero che non scoppi una
terza guerra mondiale, di morti ce ne sono già stati troppi.
Per restare in tema, siamo andati nell'incredibilmente grande e triste
museo dedicato all'Olocausto. Non era il primo che vedevo, ma ogni
volta è un colpo al cuore o pugno nello stomaco come se fosse la prima.
Abbiamo visitato il National Treasury, dove fabbricano i soldi e accanto
alle pile di milioni di dollari c'era un cartello che mi ha fatto
schiantare "imagine how I feel making my life salary in less than 3
minutes"
Immagino immagino, vorrei rubartelo il tuo life salary.
Nel tempo libero del primo giorno, tra un mocha frappuccino e l'altro a
Starbucks con la mia dolcissima Marine (belga), sono andata al museo
"air and space" ma ero così stanca che buona parte del tempo
l'ho passata a fissare lo stesso aereo per una ventina di minuti
seduta su una panchina di fianco al bagno degli uomini. Nel tempo libero
del secondo giorno siamo prima stati all'immancabile Hard Rock che
probabilmente dovrà fare rifornimento in fretta se non vuole che il suo
business a DC vada a rotoli perché l'abbiamo svaligiato. Poi Fede
(italiano) ha deciso che per il suo amore per gli animali dovevamo per
forza andare al museo di storia naturale ed effettivamente era molto
bello: sembrava di entrare dentro una savana bloccata nel tempo e nello
spazio. Mi ricordava abbastanza il museo di scienze naturali della mia
amata Milano.
Una cosa fantastica di Washington è che tutti i musei sono gratuiti:
l'unica cosa che richiedono è un controllo rigorosissimo, non si sa
mai che qualche terrorista decida di far saltare in aria pure dei musei.
Ma d'altronde l'ignoranza è una brutta bestia e cosa gliene frega
a gente così ignorante di musei così belli?
La prima sera abbiamo fatto un tour in pullman della città e io tra una
tappa e l'altra ho dormito, che fossero due minuti o mezz'ora,
appena toccavo quel sedile blu mi addormentavo. La seconda sera siamo
stati a un concerto in stile gospel al bellissimo Kennedy Center ma siamo giovani capre per cui io e i miei amici italiani eravamo più concentrati a insegnare frasi tremende a un povero vietnamita al grido di "vuol dire ti amo, davvero" -classico- e appena tornati in
albergo abbiamo deciso di festeggiare, prima andando in piscina in mutande
e reggiseno perché nessuno se l'aspettava di trovare una piscina e di trovarla aperta alle dieci di sera, e poi brindando con acqua e
mangiando popcorn: nei frigo bar degli hotel americani ci si trovano
popcorn. I messicani che ci stavano ospitando alle 2.30 del mattino hanno
deciso di cacciarci dopo vari tentativi vani di fare un caffè -italiano-
decente e dopo varie occhiate così fulminati da parte del tedesco in
stanza con loro, così io, Juliette (francese), Marie (la mia amica belga del post precedente), Ale e Gabriele
(italiani con furore) abbiamo traslocato nella stanza dei vietnamiti e il
loro compagno slovacco. Ci ha aperto lui, confusissimo e fa "hi"
Ale ha sfoderato un sorriso ha 27482 denti e ha chiesto di poter entrare.
Il buon santo Patrick ci ha osservati con aria tra lo sconsolato, il
compassionevole e l'omicida e ha strillato "sure!"
Spalancando braccia e porta. Uno dei due vietnamiti è rimasto scioccato ma
poverino già prima non era molto normale; l'altro non ha fatto una
piega e ci ha accolti come se niente fosse, nonostante dormisse fino a due
secondi prima. Tra pop corn, face time con i miei compagni perché in
Italia era mattina, risate e caos, sono arrivate le 3 am.
Dopo un po' abbiamo lasciato Vietnam e Slovacchia e abbiamo traslocato
al diciassettesimo piano dell'hotel di Arlington e con una bellissima
vista della città da una parte e dei bellissimi ascensori dall'altra,
abbiamo continuato a mangiucchiare popcorn. Annoiati dalla vista della
città e dagli ascensori che cominciavano a diventare parecchio monotoni,
abbiamo deciso di andare a dormire.
Arrivate davanti alla porta della nostra stanza, io, Juliette e Marie siamo
incappate nella classica tragedia da gita scolastica: la perdita delle
chiavi.
Siamo andate in camera dei ragazzi italiani e abbiamo chiesto asilo
politico: le chiavi non si trovavano e alla reception non c'era
un'anima. Dopo una guerra piuttosto imbarazzante basata sul "io
dormo qua non me ne frega niente di voi arrangiatevi dormite nel bagno
dormite su di me ma lasciatami dormire", mi sono tolta le calze a
forma di panda di Marie, pronta per andare a letto, e sono uscite le
chiavi. Non chiedetemi perché avevo le chiavi nelle calze, non ne ho idea.
Fatto sta che alle 4:10 finalmente siamo arrivate in camera. Alle sei è
suonata la sveglia annunciante il nostro ultimo giorno nella capitale. Non
so dove abbiamo trovato la forza anche solo di tenere gli occhi aperti, ma
ce l'abbiamo fatta. Ci siamo goduti fino alla fine ogni angolo della
bellissima Washington e del "bellissimo" hotel in Virginia; ogni
minuto di tre giorni all'insegna dell'amicizia, del turismo, del
divertimento, della bellezza di essere giovani e di essere exchange.