L’America
è un paese competitivo e dinamico.
Lo
sport spesso viene prima dello studio perché fare sport e farlo da vincenti, è
tutto.
Fa
troppo freddo per il calcio? Si gioca a basket. Fa troppo freddo per il
football? Si gioca a hockey.
Quando
avevo qualcosa come tredici anni avevo avuto un lampo di genio insieme al mio
Nikki e avevamo pensato per circa cinque secondi di provare hockey su ghiaccio.
Niente da fare, troppo tardi per iniziare. Non era stata una grande delusione esclusi
i primi tre nanosecondi dopo l’annuncio, e dopo le mie avventure sui pattini di
domenica sono incredibilmente contenta che fosse troppo tardi perché avere equilibrio
o comunque muoversi senza rischiare un trauma cranico per me non può
funzionare.
Ho
scoperto però che hockey è divertentissimo da guardare: è come l’America. Si
divertono, litigano, ridono, vincono, perdono, amano, odiano, lottano, cadono,
si rialzano e alla fine si battono il cinque.
Finita
la parte poetica, è seriamente uno sport esplosivo da guardare, non oso
immaginare da giocare. Ci sono regole ma il gioco viene fermato rarissimamente.
Non c’è fuori campo e quando i giocatori escono ed entrano non ci si fa nemmeno
caso, perché tutto continua. Pattinano così velocemente che sembra volino. Non
importa se si gela, bisogna andare a
supportare i ragazzi (o anche le ragazze che però ovviamente sono meno
violente, ma non meno veloci) ed essere parte del gioco e si spera della
vittoria- la squadra di hockey dei ragazzi è l’unica squadra della mia scuola
per cui si possa sperare nel trionfo ma questa è un’altra storia.
Ovviamente
le partite di hockey hanno lo stesso valore dal punto di vista di eventi
sociali di quelle di football, ma andarci senza Jaime perde di significato.
Jaime è la prima persona con cui ho fatto davvero amicizia, sulla porta della
classe di fisica; si prende cura di me e della mia felicità e si preoccupa che
io viva l’esperienza al meglio e al completo, ragion per cui ha deciso di
introdurmi all’hockey.
Siccome
le partite della scuola più di una volta alla settimana non erano abbastanza,
ha comprato due biglietti “for a real game”: squadra del New Hampshire, i
Monarchs, contro una squadra canadese.
Dopo
una cena molto americana a base di
hamburger da mezzo chilo in un pub che però era chiamato “Queen of England”, i
Monarchs perdevano due a zero, finché due minuti e mezzo prima della fine hanno
fatto un goal. Jaime mi è saltata addosso, lo stadio era “on fire”
letteralmente, nonostante fossero ancora sotto di un punto e mancassero solo
due minuti alla fine. In pratica ero l’unica senza speranza. Ho imparato che la
speranza deve essere l’ultima a morire: il timer correva velocissimo, e la
gente iniziava già a uscire dallo stadio. 26 secondi prima della fine, i
Monarchs hanno fatto un altro goal. 2-2. Non credevo che guardare uno sport
potesse essere così coinvolgente, ma pure io ero impazzita di gioia insieme ai
giocatori, Jaime e il resto dello stadio.
Poi
hanno perso 3-2 durante i supplementari, ma questa è un’altra storia. Le
sorprese non finiscono mai oltreoceano.
Al
ritorno abbiamo fatto due tappe: una in autogrill, dove il genio qua presente
ha deciso di comprare una lattina firmata Starbucks, double shot of energy alle
undici di sera, l’altra in riva al lago: le luci del mio paesino, Wolfeboro, si
riflettevano perfettamente sullo specchio d’acqua. Era difficile capire quale
fosse il cielo e quale il lago, distinguere i sogni dalla realtà.
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