martedì 16 febbraio 2016

L'amore per Jaime e per l'hockey.

L’America è un paese competitivo e dinamico.
Lo sport spesso viene prima dello studio perché fare sport e farlo da vincenti, è tutto.
Fa troppo freddo per il calcio? Si gioca a basket. Fa troppo freddo per il football? Si gioca a hockey.
Quando avevo qualcosa come tredici anni avevo avuto un lampo di genio insieme al mio Nikki e avevamo pensato per circa cinque secondi di provare hockey su ghiaccio. Niente da fare, troppo tardi per iniziare. Non era stata una grande delusione esclusi i primi tre nanosecondi dopo l’annuncio, e dopo le mie avventure sui pattini di domenica sono incredibilmente contenta che fosse troppo tardi perché avere equilibrio o comunque muoversi senza rischiare un trauma cranico per me non può funzionare.
Ho scoperto però che hockey è divertentissimo da guardare: è come l’America. Si divertono, litigano, ridono, vincono, perdono, amano, odiano, lottano, cadono, si rialzano e alla fine si battono il cinque.
Finita la parte poetica, è seriamente uno sport esplosivo da guardare, non oso immaginare da giocare. Ci sono regole ma il gioco viene fermato rarissimamente. Non c’è fuori campo e quando i giocatori escono ed entrano non ci si fa nemmeno caso, perché tutto continua. Pattinano così velocemente che sembra volino. Non importa se si gela,  bisogna andare a supportare i ragazzi (o anche le ragazze che però ovviamente sono meno violente, ma non meno veloci) ed essere parte del gioco e si spera della vittoria- la squadra di hockey dei ragazzi è l’unica squadra della mia scuola per cui si possa sperare nel trionfo ma questa è un’altra storia.
Ovviamente le partite di hockey hanno lo stesso valore dal punto di vista di eventi sociali di quelle di football, ma andarci senza Jaime perde di significato. Jaime è la prima persona con cui ho fatto davvero amicizia, sulla porta della classe di fisica; si prende cura di me e della mia felicità e si preoccupa che io viva l’esperienza al meglio e al completo, ragion per cui ha deciso di introdurmi all’hockey.
Siccome le partite della scuola più di una volta alla settimana non erano abbastanza, ha comprato due biglietti “for a real game”: squadra del New Hampshire, i Monarchs, contro una squadra canadese.
Dopo una cena  molto americana a base di hamburger da mezzo chilo in un pub che però era chiamato “Queen of England”, i Monarchs perdevano due a zero, finché due minuti e mezzo prima della fine hanno fatto un goal. Jaime mi è saltata addosso, lo stadio era “on fire” letteralmente, nonostante fossero ancora sotto di un punto e mancassero solo due minuti alla fine. In pratica ero l’unica senza speranza. Ho imparato che la speranza deve essere l’ultima a morire: il timer correva velocissimo, e la gente iniziava già a uscire dallo stadio. 26 secondi prima della fine, i Monarchs hanno fatto un altro goal. 2-2. Non credevo che guardare uno sport potesse essere così coinvolgente, ma pure io ero impazzita di gioia insieme ai giocatori, Jaime e il resto dello stadio.
Poi hanno perso 3-2 durante i supplementari, ma questa è un’altra storia. Le sorprese non finiscono mai oltreoceano.
Al ritorno abbiamo fatto due tappe: una in autogrill, dove il genio qua presente ha deciso di comprare una lattina firmata Starbucks, double shot of energy alle undici di sera, l’altra in riva al lago: le luci del mio paesino, Wolfeboro, si riflettevano perfettamente sullo specchio d’acqua. Era difficile capire quale fosse il cielo e quale il lago, distinguere i sogni dalla realtà.

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