domenica 29 novembre 2015

Tre giorni (e zero notti) a Washington D.C.

L'organizzazione italiana che mi segue nel mio anno negli USA si chiama
WEP, mentre la mia organizzazione partner qua in New Hampshire si chiama
CHI. Non tutti gli exchange in America hanno la stessa organizzazione, ma
buona parte dei ragazzi in New Hampshire, che siano con WEP che siano con
qualcos'altro, hanno la stessa che ho io. La CHI quaggiù organizza
almeno un'attività al mese per permettere a me e ai miei amici
exchange di riunirci e l'attività di novembre era una gita di tre
giorni a Washington DC. (Per chi non lo sapesse, vero Gino? (Sai che i
love You), Washigton DC sta al confine con la Virginia, East Coast, non
nello stato di Washigton che è Nord West)
È stato pazzesco, grazie parents italiani che mi avete finanziata.
Venerdì sera sono andata a cena a casa di Claudio (messicano) con gli altri
ragazzi, poi io e Laura (belga) siamo rimaste a dormire lì e ci siamo
dilungate a parlare della vita e perché no pure della morte, già che
c'eravamo, fino alle 11.30 di notte. L'unico problema era che il
giorno dopo alle 2.30 del mattino eravamo in piedi "pronte" ad
andare all'aeroporto di Boston in direzione DC.
Siamo arrivati tutti e ventinove (sette italiani, gli altri da vari paesi)
a Washington alle 11 del mattino e abbiamo iniziato a girare e visitarla
in lungo e in largo subito. Giusto il tempo di fare pipì e ci siamo
ritrovati dentro il Congresso, dove creano le leggi della terra dei sogni.
A primo impatto la città in se è stata un po' deludente: mi aspettavo
New York la vendetta, ma è tutta un'altra storia; Washington è molto
europea e non ci sono grattacieli perché nessun edificio può essere più
alto del Washington Monument che assomiglia a un obelisco.
Sono finita per innamorarmene in ogni caso, sarà che è America.
È ampissima, ogni strada è gigante e questo è senz'altro un punto a
favore. Giuro che se non ci fosse il rischio di essere investita solo a pensarci volteggerei senza sosta in mezzo alla strada o comunque ci farei ballare un esercito di ballerine visto che io non sono molto portata.
DC è anche strana perché è molto collinosa quindi alcuni palazzi
sembrano alti ma in realtà sono solo in collina. In ogni caso il Washigton
Monument si vede da ogni angolo della città e la vista da lassù è magica,
mozzafiato.
Il Congresso, la corta suprema, il mausoleo, e ovviamente la
casa bianca, sono bianchi e puliti: Abramo Lincoln svetta all'interno
di quello che assomiglia a un tempio greco e fa venire voglia di seguire
le sue orme ed essere grandi come lui anche solo per avere una statua
grande come la sua. L'unica cosa che farei diversamente rispetto ad Abramo Lincoln sarebbe assicurarmi che la statua venga costruita prima della mia morte, così da piazzarmi di fronte e dire a chiunque passi "EHI SONO IO QUEL GIGANTE VEDI QUANTO SONO IMPORTANTE, AMMIRAMI"
Quando sono arrivata lì io e Marie ci siamo guardate
e"wow it exists": la statua di tutti i film ci osservava con il
suo sguardo fiero. Avrei tanto voluto sedermici in braccio ad Abramo
Lincoln.
Io, Marie, Daniel e Juliette il secondo giorno abbiamo perso la metro, le porte si
sono chiuse in frettissima. Noi quattro a terra con aria stupita, gli
altri che ci facevano ciao con le manine mentre il treno sfrecciava via e
Claudio con lo zaino chiuso mezzo fuori. Siccome non è come a Milano che
la metro passa ogni due minuti bensì ogni venti, ci siamo persi il cambio
della guardia al cimitero militare, ma i nostri amici ci hanno rassicurato
dicendo che era molto molto noioso e che probabilmente è stato più
entusiasmante aspettare nella fantastica metro. Hanno reso l'idea in
pratica.
È un luogo tosto se realizzi che oltre a essere bello, è un cimitero. Io
non ho realizzato: mi risulta impossibile che siano morte così tante
persone, e quasi tutte in guerra. Era una distesa di lapidi bianche e
pure, che sembrava infinita, surreale. Prego davvero che non scoppi una
terza guerra mondiale, di morti ce ne sono già stati troppi.
Per restare in tema, siamo andati nell'incredibilmente grande e triste
museo dedicato all'Olocausto. Non era il primo che vedevo, ma ogni
volta è un colpo al cuore o pugno nello stomaco come se fosse la prima.
Abbiamo visitato il National Treasury, dove fabbricano i soldi e accanto
alle pile di milioni di dollari c'era un cartello che mi ha fatto
schiantare "imagine how I feel making my life salary in less than 3
minutes"
Immagino immagino, vorrei rubartelo il tuo life salary.
Nel tempo libero del primo giorno, tra un mocha frappuccino e l'altro a
Starbucks con la mia dolcissima Marine (belga), sono andata al museo
"air and space" ma ero così stanca che buona parte del tempo
l'ho passata a fissare lo stesso aereo per una ventina di minuti
seduta su una panchina di fianco al bagno degli uomini. Nel tempo libero
del secondo giorno siamo prima stati all'immancabile Hard Rock che
probabilmente dovrà fare rifornimento in fretta se non vuole che il suo
business a DC vada a rotoli perché l'abbiamo svaligiato. Poi Fede
(italiano) ha deciso che per il suo amore per gli animali dovevamo per
forza andare al museo di storia naturale ed effettivamente era molto
bello: sembrava di entrare dentro una savana bloccata nel tempo e nello
spazio. Mi ricordava abbastanza il museo di scienze naturali della mia
amata Milano.
Una cosa fantastica di Washington è che tutti i musei sono gratuiti:
l'unica cosa che richiedono è un controllo rigorosissimo, non si sa
mai che qualche terrorista decida di far saltare in aria pure dei musei.
Ma d'altronde l'ignoranza è una brutta bestia e cosa gliene frega
a gente così ignorante di musei così belli?
La prima sera abbiamo fatto un tour in pullman della città e io tra una
tappa e l'altra ho dormito, che fossero due minuti o mezz'ora,
appena toccavo quel sedile blu mi addormentavo. La seconda sera siamo
stati a un concerto in stile gospel al bellissimo Kennedy Center ma siamo giovani capre per cui io e i miei amici italiani eravamo più concentrati a insegnare frasi tremende a un povero vietnamita al grido di "vuol dire ti amo, davvero" -classico- e appena tornati in
albergo abbiamo deciso di festeggiare, prima andando in piscina in mutande
e reggiseno perché nessuno se l'aspettava di trovare una piscina e di trovarla aperta alle dieci di sera, e poi brindando con acqua e
mangiando popcorn: nei frigo bar degli hotel americani ci si trovano
popcorn. I messicani che ci stavano ospitando alle 2.30 del mattino hanno
deciso di cacciarci dopo vari tentativi vani di fare un caffè -italiano-
decente e dopo varie occhiate così fulminati da parte del tedesco in
stanza con loro, così io, Juliette (francese), Marie (la mia amica belga del post precedente), Ale e Gabriele
(italiani con furore) abbiamo traslocato nella stanza dei vietnamiti e il
loro compagno slovacco. Ci ha aperto lui, confusissimo e fa "hi"
Ale ha sfoderato un sorriso ha 27482 denti e ha chiesto di poter entrare.
Il buon santo Patrick ci ha osservati con aria tra lo sconsolato, il
compassionevole e l'omicida e ha strillato "sure!"
Spalancando braccia e porta. Uno dei due vietnamiti è rimasto scioccato ma
poverino già prima non era molto normale; l'altro non ha fatto una
piega e ci ha accolti come se niente fosse, nonostante dormisse fino a due
secondi prima. Tra pop corn, face time con i miei compagni perché in
Italia era mattina, risate e caos, sono arrivate le 3 am.
Dopo un po' abbiamo lasciato Vietnam e Slovacchia e abbiamo traslocato
al diciassettesimo piano dell'hotel di Arlington e con una bellissima
vista della città da una parte e dei bellissimi ascensori dall'altra,
abbiamo continuato a mangiucchiare popcorn. Annoiati dalla vista della
città e dagli ascensori che cominciavano a diventare parecchio monotoni,
abbiamo deciso di andare a dormire.
Arrivate davanti alla porta della nostra stanza, io, Juliette e Marie siamo
incappate nella classica tragedia da gita scolastica: la perdita delle
chiavi.
Siamo andate in camera dei ragazzi italiani e abbiamo chiesto asilo
politico: le chiavi non si trovavano e alla reception non c'era
un'anima. Dopo una guerra piuttosto imbarazzante basata sul "io
dormo qua non me ne frega niente di voi arrangiatevi dormite nel bagno
dormite su di me ma lasciatami dormire", mi sono tolta le calze a
forma di panda di Marie, pronta per andare a letto, e sono uscite le
chiavi. Non chiedetemi perché avevo le chiavi nelle calze, non ne ho idea.
Fatto sta che alle 4:10 finalmente siamo arrivate in camera. Alle sei è
suonata la sveglia annunciante il nostro ultimo giorno nella capitale. Non
so dove abbiamo trovato la forza anche solo di tenere gli occhi aperti, ma
ce l'abbiamo fatta. Ci siamo goduti fino alla fine ogni angolo della
bellissima Washington e del "bellissimo" hotel in Virginia; ogni
minuto di tre giorni all'insegna dell'amicizia, del turismo, del
divertimento, della bellezza di essere giovani e di essere exchange.

Exchange Family

Qualche sabato fa sono stata a Concord (triste) capitale del regno dei
boschi, con Lucía e Marie-Odile. Lucía è spagnola e Marie belga, e
giustamente perché una spagnola una belga e un'italiana si incontrano
e si incontrano nella capitale peggiore tra le capitali?
È un altro regalo di questa esperienza: amici sparsi per il mondo ma tutti
"ammassati" nel New Hampshire per quest'anno scolastico
piovono come polpette.
Marie era con me durante i primi tre giorni a New York ma non ci siamo
rivolte la parola se non in aeroporto e Newark, New Jersey, direzione
Manchester, New Hampshire: "uer ar iu from?"
"Belgium bat i cant spich englisc veri uel"
"uat?"
Ci siamo incontrate ancora il 4 settembre in una festa in piscina quando la
mia homesickness aveva lasciato spazio all'adrenalina e abbiamo
scambiato due parole; stessa cosa con Lucía che però non avevo mai visto
prima. A questo punto devo ringraziare la tecnologia: io e Lucía da quel
giorno abbiamo iniziato a parlare su snapchat per caso, finché non abbiamo
deciso di incontrarci a Concord anche con Marie che vive nella stessa
cittadina e spesso nella stessa casa di Lucía. Nonostante Concord fosse
davvero deprimente e non ci fosse assolutamente niente da fare, mi sono
divertita tantissimo con quelle due scapole: l'avere in comune un anno
all'estero è una colla potentissima, basta sapere il nome, cercare di
pronunciarlo correttamente e sei a posto, amiche per la vita.
Ci sono persone che viaggiano per turismo, persone che viaggiano sì per
turismo, ma soprattutto per crescere. Noi exchange students, che sia un
anno, sei o tre mesi, siamo tra quelli che viaggiano per crescere -ma da
soli non si cresce proprio per niente. A volte per diventare grandi e
forti c'è bisogno di una Lucía che con il suo accento marcato ti dice
che anche lei fa fatica a fare amicizia con questi americani così
fantastici ma così diversi dagli europei. A volte c'è bisogno di una
Marie che ti dice che anche la sua host sister qualche volta è
insostenibile e che le manca la sua sorella vera anche se in Belgio non
erano nemmeno così tanto legate. C'è bisogno di un Daniel che ti dice
che l'America è un'opportunità e "don't forget that this
is the land of dreams and I'm here for you, part of it".
C'è bisogno di un Ale che ti dà della troia in italiano e alza il medio
in linguaggio internazionale ma intanto ti sorride e dice che dovremmo
vederci più spesso. C'è bisogno di una Marine che dopo tre giorni
insieme ti scrive per dire che le manca il tuo sorriso, c'è bisogno di
una Cristina con un accento romano che fa schiantare che capisce i tuoi
bisogni, costruisce piani giovani e irrealizzabili con te e ti supporta
sempre e comunque.
C'è bisogno di parlare con qualcuno straniero come te che ti capisce
davvero perché sta vivendo l'esperienza enorme che stai vivendo tu
senza sentirsi in colpa perché non dovremmo parlare italiano quasi mai.
C'è bisogno di sapere che non sei sola.
Le persone in Italia ti stanno vicine ma non possono fisicamente; le
persone in New Hampshire ti stanno vicine e c'è pure occasione di
abbracciarsi davvero, non tramite Skype. (Gli americani sono freddissimi,
l'abbraccio è un rito sacro se non snobbato e l'orso abbraccia
tutti che scrive questo articolo soffre la mancanza di specie simili).
Forse questi ragazzi sono la parte migliore dell'esperienza:
l'amicizia è fondamentale. Sarà che siamo umani, nati per morire (Lana
del Rey è il mio mantra) ma anche per amare, costruire legami con altra
gente così uguale ma così diversa.

domenica 1 novembre 2015

Autunno in macchina

In America hanno un concetto diverso di "distanza" di quello che abbiamo noi: ventidue ore in macchina per andare a salutare il padre, dodici per la senior picture, oppure un'ora per andare a fare shopping, quaranta minuti per gli allenamenti di scherma, sono aspetti della vita di tutti i giorni. La macchina, come c'è scritto nel mio sacro libro di governo americano (o educazione civica, same) è stata la rivoluzione della vita degli americani.
I tragitti considerati lunghi in Italia dai trenta minuti in su in macchina per me (che nonostante abbia diciassette anni non posso guidare perché sono qua per studiare, mica per la patente) sono diventati parte integrante della routine ma soprattutto il luogo in cui do' sfogo ai miei pensieri lasciandoli correre in ogni possibile direzione, su ogni possibile strada.
La macchina è il posto in cui ho parlato con la mia host mum per cinque ore (stavamo andando a prendere Sam, mia sorella, a
Long Island) il secondo giorno in New Hampshire, noncurante della pronuncia tremenda e dei complessi; è il posto in cui ho pianto tutte le mie lacrime il quarto giorno in un parcheggio vicino a una spiaggia a Wolfeboro, quando non ce la facevo più a trattenermi e la paura di un'esperienza così grande mi stava distruggendo, al fianco della mia host mum che sorrideva e mi sosteneva.
La macchina è il posto in cui nelle note del telefono scrivo il mio blog.
È la scusa buona per uscire con chiunque perché "in Italy we can't have the license until we're 18, yeah I know it sucks, I really would love to be allowed to drive"
E quindi "OH MAN IT REALLY SUCKS, I'll definitely drive you everywhere, everyday."
Un americano senza macchina, è americano a metà.
Ormai conosco benissimo la strada che percorre il New Hampshire da nord a sud, ed è davvero bello notare di giorno in giorno i cambiamenti delle foglie. Il New England (Stati del Nord Est) infatti è famoso per le foglie dell'autunno con i loro colori e in effetti lo consiglio come posto da vedere almeno una volta nella vita, perché mozza il fiato. Sto iniziando ad amare pure i giorni di pioggia -e chi mi conosce sa quanto mi fa schifo la pioggia- perché il cielo grigio contrasta con l'arancione, rosso, viola, giallo e qualsiasi sfumatura vi venga in mente delle foglie, ed è bellissimo. Esco spessissimo con la mia macchina fotografica al collo anche se ci sono due gradi come temperatura massima perché non voglio perdermi nemmeno un secondo dell'autunno che è e probabilmente sarà il più bello della mia vita; voglio che la bellezza di questo New Hampshire in Ottobre rimanga eterna nelle mie foto.
In macchina prima di iniziare a scrivere questo "articolo" ho pensato a quanto sia fortunata ad avere questa opportunità pazzesca. Due mesi sono volati e non vedo l'ora di vivere gli altri otto al meglio, anche se a volte la prospettiva mi spaventa enormemente. Ancora una volta grazie a tutti quelli che mi hanno permesso di realizzare questo American Dream, preparatevi psicologicamente e fisicamente che appena torno mi metto a studiare per diventare una (pericolosa) guidatrice.