mercoledì 27 aprile 2016

Lacrosse Love

Mi scuso per aver lasciato il mio blog momentaneamente in pausa ma gioco a lacrosse “all the time”. Lacrosse è uno sport di squadra. Ogni componente ha il suo bastone con una rete, pocket, in cima, leggermente concava così che ci possa stare la pallina, la quale è tutto tranne che morbida. Per far si che la pallina resti nella rete, bisogna tenere il bastone in movimento e intanto correre. L’obiettivo è fare goal in una porta che è più o meno metà di una da calcio, lavorando di squadra (rispettando le regole).
Ho deciso di giocare a lacrosse per una serie di motivi esilaranti e -come direbbero qua-  naïve (ingenui), che credetemi non volete leggere in un libro. Si, si, anche per l’ esperienza puramente americana e poi perché un giorno Hannah me l’ha anche suggerito che avrei dovuto provarlo. “Sure, but I suck at sports.” Le ho detto sulla seggiovia quando sciavamo insieme. Hannah è sensibile come un sasso, non preoccuparti, mi ha detto, non sarai l’unica perché molte delle persone che si iscriveranno saranno freshmen, nessuno sarà capace. Grazie Hannah, i freshmen hanno quattordici anni, io ne ho diciassette e sono pure alta. Benissimo, starai in difesa, e poi i freshmen hanno quindici anni.
Gioco in attacco, con due freshmen che sono alte come me e sono anche bravina. Non mi piace rispettare le regole, ma quello è colpa del mio DNA italiano. Proprio oggi parlando su skype con la mia famiglia, mamma mi ha ricordato che gli Americani credono che le regole siano fatte per essere rispettate, al contrario degli Italiani che sono convinti che le regole siano fatte per essere infrante. Poi si chiedono perché l’Italia sia più caotica e divertente, questi civili.
Lacrosse è uno sport di squadra esclusivamente americano, ragion per cui in Italia nessuno lo sente nominare o men che meno sa cosa sia. Quando ho detto ai miei amici italiani che avrei fatto lacrosse ho specificato di guardare video su You Tube per capire cosa sia; ora cercherò di spiegarlo molto semplificato ma guardate video su You Tube. Scrivi lacrosse e appaiono frammenti di partite di lacrosse maschile, che è completamente diverso da quello femminile. I ragazzi hanno meno regole per non dire che non ne hanno proprio, e letteralmente si mettono il bastone tra le ruote. Coloro che stanno in difesa hanno un bastone lungo il doppio degli attaccanti e dei centro campisti, ma quando si spaccano a vicenda per proteggersi o farsi strada, credetemi la lunghezza del bastone diventa relativamente significativa. Sembra troppo divertente, davvero TROPPO: è come football ma è un gioco molto veloce perché viene fermato solo in caso di falli significativi, se la palla cade chissenefrega, si raccatta al volo, e questo grazie a dio vale anche per girls lacrosse. I ragazzi hanno un casco e una marea di protezioni, noi giochiamo con il bastone, i cosiddetti googles per proteggere gli occhi, il paradenti e come divise delle gonnelline molto fashion. Abbiamo 47 regole e quella che odio di più è che dobbiamo stare a una certa distanza da colei che ha la palla. Ci sono due  momenti in cui regolarmente invidio gli esseri maschili: quando ho il ciclo e quando gioco a lacrosse. Poi, il ciclo me lo tengo purtroppo, ma con lacrosse a volte mi lascio andare. Ieri avevamo la prima vera partita e una delle avversarie era entrata in modalità cozza. Male, l’ho stesa senza troppi complimenti. Ho tirato su lo sguardo perché ovviamente l’arbitro stava perdendo un polmone a furia di fischiare, e ho visto Abby, dietro di lui, che stava cercando di trattenere le risate con tutte le sue forze. A quel punto sono scoppiata a ridere e lei dopo di me, e devo dire è stato il momento più divertente di tutta la partita.
Una delle mie amiche, Jaida, non è più nella squadra e il mio cuore era abbastanza spezzato, perché io e lei eravamo come una micro squadra nella squadra. Durante la seconda partita avevo davvero paura perché la vedevo sorridere in panchina, ma non era fisicamente in campo con me; abbiamo perso drammaticamente 11-3 ma ho segnato due volte. È una sensazione che mi ero dimenticata o che non avevo mai conosciuto, perché  a basket facevo schifo e non credo di aver mai segnato. Felicità e soddisfazione, ma soprattutto non individuali come in scherma o sci: vedere l’intero team sorridente e saltarti addosso finché l’arbitro non comincia a strillare è bellissimo, motivante. Sentire l’allenatrice che anche se è decisamente furiosa nei tuoi confronti perché hai infranto certe regole giorni prima, urlare come una pazza per complimentarsi, sentire Abby che è la giocatrice più portata del team varsity (quelle brave) urlare “I LOVE YOU DILETTTTTA” da bordo campo, fa sentire letteralmente contenta. Ho fatto solo due goals, non è niente di che considerando che siamo state battute, ma hanno avuto un significato gigante. Amo lacrosse e la mia squadra.
Come in tutti gli sport che siano di squadra o che siano individuali, nel liceo in America lacrosse è diviso in due squadre, JV e Varsity. JV sta per Junior Varsity: di solito è composto da persone che non hanno mai giocato prima o che magari hanno giocato ma non sono particolarmente portate. Varsity sono persone bravissime e con esperienza alle spalle quindi di solito Juniors e Seniors, gente della mia età. Hannah per esempio, che è quella che mi ha proposto di giocare, è in Varsity, e così moltissime tra le mie amiche. Io non ho mai giocato prima e anche se sono Senior non posso essere con loro nemmeno volendo. Quando ho realizzato ciò, dopo essermi strappata il quadricipite durante le selezioni e aver messo i piedi per terra e smesso di sognare, mi sono rattristata. In JV sono tutte babies, sembro come la loro madre.

Sono bimbe e sembro come la loro madre, sì. Quello a cui non avevo pensato è quanto possano essere fantastiche comunque; ancora una volta mi sono fasciata la testa prima di essermela rotta. Non potrei chiedere per una squadra migliore, per delle compagne più dolci e divertenti. Poi ovviamente io sono grande e soprattutto italiana quindi ho tutto il loro amore a prescindere. Sono felice, gioco e gioco per vincere anche se poi non succede, e lacrosse mi mancherà così tanto in Italia. Credo che mi trasferirò a Milano e renderò la squadra che non si sa come è nata lì grandiosa e sarò una di quelle persone che si guardano storto in aeroporto perché trasporterò un bastone di ferro dall’aspetto interessante avanti e indietro, Italia-America.

sabato 27 febbraio 2016

February Break from reality

E’ il 27 febbraio, sono negli Stati Uniti da sei mesi e quattro giorni.
Un paio di settimane fa la temperatura esterna era di -26 gradi Celsius e of course io ero in giro con la mia amica Marie perché dovevamo comprare un muffin per Lucìa, la quale la prossima volta il muffin -se lo vede- lo vede in cartolina perché siamo quasi morte. Il mio concetto di freddo è decisamente cambiato. Comunque, non posso lamentarmi più di tanto perché era solo un weekend: l’anno scorso la temperatura era così bassa quasi ogni giorno; faceva così freddo che la scuola restava chiusa. Di conseguenza a Febbraio c’è per tradizione, obbligo, una settimana di vacanza concessa nella speranza di poter prendere una pausa dall’inverno sfiancante andando in Florida, Messico o anche solo a casa dei vicini se hanno il riscaldamento più potente. Quest’ inverno caldo ha reso tutti più rilassati quindi il bisogno di fuggire era meno strillante. Io ho deciso di spostarmi a Sud di tre o quattro stati, per andare a trovare dei miei cugini che però chiamo zii a Princeton nel New Jersey. Siccome Simone insegna all’università di Princeton, college bellissimo e prestigiosissimo, ho assistito a delle sue lezioni. Mooolto interessante Dante in inglese, non credevo potesse funzionare ma invece funziona eccome, e anche bene. A cena abbiamo mangiato a un tavolo con dei ragazzi americani che studiano italiano e sono rimasta colpitissima da come parlano bene, dopo solo sei mesi di lezioni: hanno l’accento Americano con le erre tutte morbide, ma sono fantastici, con una voglia di imparare travolgente; credo che dovrebbero essere guardati come modelli da ragazzi della mia età ma anche da molti adulti.
Mercoledì invece sono andata a Long Island, in un altro college chiamato Hofstra, con Ilaria, e ho assistito a greco e latino, tradotti in inglese.  Insomma sono persone super brillanti i miei zii/cugini. Giovedì sono stata con una ragazza italiana che conoscono loro, Ginevra, che studia ingegneria (non so come si scriva) lì a Princeton, ed è grandiosa perché fa di tutto: studia, lavora, fa una marea di sport. Mi ha portato con lei a fare rock climbing (arrampicata) con i suoi amici. Una gran fatica ma anche un gran divertimento; dopo di che mi hanno inghiottito nella vita di college americana e sono andata in mensa con loro. Penso sarebbe davvero super cool se avessero i dormitori e tutte quelle storie da film pure in Italia. Poi io ero sempre stata traumatizzata dalle mense scolastiche alle elementari quindi sotto sotto avevo l’ansia pre-mensa, ma in realtà quei kids hanno una varietà di cibo incredibile e di buona qualità che mi ci trasferirei.
Ieri io, Ilaria e Virginia, la loro bimba, siamo andate a New York per vedere “School of Rock” a Broadway. E niente, il caos, i colori, le voci della città mi hanno rapita di nuovo. È la città più bella di sempre, la amo di un amore incondizionato: non mi sono mai sentita così felice come quando ci ho messo piede il 23 agosto 2015 e il 26 febbraio 2016. New York è arte. Il musical era bellissimo, e sono diventata molto gelosa di quei bimbi prodigio che recitavano pieni di energia. Confido che Virgi, con il suo americano perfetto e la sua grinta diventi una di loro.

Dopo sei mesi negli Stati Uniti e una vacanza pazzesca sono immensamente grata, ma anche un po’ malinconica: rivedere dei miei parenti, italiani veri, mi ha lasciato un po’ di voglia di Italia. È passato un po’ senza vedere nessuno. Manca poco alla fine, meno di quattro mesi, ma adesso sento un grande bisogno di casa. L’America è spettacolare, ma non è comunque Italia in nessun modo. Si vive meglio qua, ma ho capito che si vive perfettamente se con persone con una testa europea, italiana. Io, piccola di fronte a questo mondo enorme, qua oltreoceano mi abituo in fretta e nonostante ami i cambiamenti è sempre difficile voltare pagina. Fa sempre più paura pensare a quanto il tempo voli. Come dice Simone, la vita è correre e aspettare. Adesso sento di voler correre a giugno anche se so che aspettare di correre indietro qua negli States sarà difficile. E’ un caos immenso e io non sono una persona ordinata.

martedì 16 febbraio 2016

L'amore per Jaime e per l'hockey.

L’America è un paese competitivo e dinamico.
Lo sport spesso viene prima dello studio perché fare sport e farlo da vincenti, è tutto.
Fa troppo freddo per il calcio? Si gioca a basket. Fa troppo freddo per il football? Si gioca a hockey.
Quando avevo qualcosa come tredici anni avevo avuto un lampo di genio insieme al mio Nikki e avevamo pensato per circa cinque secondi di provare hockey su ghiaccio. Niente da fare, troppo tardi per iniziare. Non era stata una grande delusione esclusi i primi tre nanosecondi dopo l’annuncio, e dopo le mie avventure sui pattini di domenica sono incredibilmente contenta che fosse troppo tardi perché avere equilibrio o comunque muoversi senza rischiare un trauma cranico per me non può funzionare.
Ho scoperto però che hockey è divertentissimo da guardare: è come l’America. Si divertono, litigano, ridono, vincono, perdono, amano, odiano, lottano, cadono, si rialzano e alla fine si battono il cinque.
Finita la parte poetica, è seriamente uno sport esplosivo da guardare, non oso immaginare da giocare. Ci sono regole ma il gioco viene fermato rarissimamente. Non c’è fuori campo e quando i giocatori escono ed entrano non ci si fa nemmeno caso, perché tutto continua. Pattinano così velocemente che sembra volino. Non importa se si gela,  bisogna andare a supportare i ragazzi (o anche le ragazze che però ovviamente sono meno violente, ma non meno veloci) ed essere parte del gioco e si spera della vittoria- la squadra di hockey dei ragazzi è l’unica squadra della mia scuola per cui si possa sperare nel trionfo ma questa è un’altra storia.
Ovviamente le partite di hockey hanno lo stesso valore dal punto di vista di eventi sociali di quelle di football, ma andarci senza Jaime perde di significato. Jaime è la prima persona con cui ho fatto davvero amicizia, sulla porta della classe di fisica; si prende cura di me e della mia felicità e si preoccupa che io viva l’esperienza al meglio e al completo, ragion per cui ha deciso di introdurmi all’hockey.
Siccome le partite della scuola più di una volta alla settimana non erano abbastanza, ha comprato due biglietti “for a real game”: squadra del New Hampshire, i Monarchs, contro una squadra canadese.
Dopo una cena  molto americana a base di hamburger da mezzo chilo in un pub che però era chiamato “Queen of England”, i Monarchs perdevano due a zero, finché due minuti e mezzo prima della fine hanno fatto un goal. Jaime mi è saltata addosso, lo stadio era “on fire” letteralmente, nonostante fossero ancora sotto di un punto e mancassero solo due minuti alla fine. In pratica ero l’unica senza speranza. Ho imparato che la speranza deve essere l’ultima a morire: il timer correva velocissimo, e la gente iniziava già a uscire dallo stadio. 26 secondi prima della fine, i Monarchs hanno fatto un altro goal. 2-2. Non credevo che guardare uno sport potesse essere così coinvolgente, ma pure io ero impazzita di gioia insieme ai giocatori, Jaime e il resto dello stadio.
Poi hanno perso 3-2 durante i supplementari, ma questa è un’altra storia. Le sorprese non finiscono mai oltreoceano.
Al ritorno abbiamo fatto due tappe: una in autogrill, dove il genio qua presente ha deciso di comprare una lattina firmata Starbucks, double shot of energy alle undici di sera, l’altra in riva al lago: le luci del mio paesino, Wolfeboro, si riflettevano perfettamente sullo specchio d’acqua. Era difficile capire quale fosse il cielo e quale il lago, distinguere i sogni dalla realtà.

lunedì 1 febbraio 2016

Coraggiosamente (sciatrice) con Kasey.

Sembra ieri ma era ottobre, che la mia amica Alex mi aveva dichiarato che l’unica ragione per cui non passa l’inverno piangendo a causa del freddo e della neve è il basket. E io, che non ci avevo mai pensato prima le avevo risposto “credo proprio che la mia ragione di sopravvivenza invernale sarà la squadra di sci”.
Mi e’ sempre piaciuto sciare: quando ero piccola mi spaventava da morire, ma con il tempo ho imparato a trasformare la paura in adrenalina. Ho imparato a trasformare la sensazione di impotenza che avevo e spesso ho ancora in cima alla pista in energia.
Non ho mai amato sciare cosi’ tanto da pensare di iscrivermi alla squadra agonistica del liceo qua in America. La verità è che ero così spaventata all’idea di neve costante da dicembre a marzo che avevo bisogno di una ragione di amarla quella dannata neve, così mi sono convinta di amare lo sci più di ogni cosa, mi sono convinta di non aver paura del giudizio altrui e mi sono iscritta.
La parte ironica nella storia e’ che se ha nevicato, ha nevicato per due giorni. Niente allenamenti di sci a dicembre a causa di mancanza di neve, allenamenti su quella che chiamano neve artificiale ma che in realtà e’ ghiaccio puro e tremendo per tutto gennaio.
Fatto sta che non ho nemmeno bisogno di amare la neve che non c’è, ma mi sono davvero innamorata dello sci.
L’America e’ basata sulla competizione, per cui si gareggia e si gareggia per vincere. Quaggiù vivo in un film, ma fino a un certo punto: purtroppo non sono la fanciulla che inizia uno sport e si rivela campionessa olimpionica dopo cinque minuti che e’ in pista.
Io cado e non vinco proprio per niente: scio abbastanza bene ma ho un rapporto conflittuale con slalom speciale. Il martedì abbiamo allenamento di slalom gigante e il mercoledì slalom speciale. Come direbbero qua, slalom gigante “is as fun as hell”: e’ una combinazione di alta velocità e tecnica ed e’ moooolto più facile di slalom speciale. Penso che speciale sia divertente ma mi spaventa da morire e per di più è parecchio difficile ma o tutto o niente. Il venerdì abbiamo le gare e mi stanno insegnando a crescere: sto imparando che si sopravvive anche con tutti gli occhi della squadra puntati addosso, e che anche se sembra, il countdown prima della partenza non causa infarti o attacchi di panico (più o meno). Sto imparando che vincere fa felici, ma anche fare del proprio meglio e che un po’ di competitività mi rende solo più tosta.
Tutto questo non annulla il mio odio per le gare, non solo di sci. E’ proprio grazie all’odio per le gare e soprattutto per le gare di speciale, che ho conosciuto Kasey. Ha un anno meno di me e potrei dire che mi ha adottata, inoltre pure lei è nuova nella squadra quindi abbiamo in comune anche il fatto di essere felici anche solo se non veniamo squalificate alle gare. E’ stata un po’ rude all’inizio, ma quando si è aperta raccontandomi le sue storie di vita in seggiovia ho iniziato ad amarla. E’ grazie a lei che ho realizzato quanto mi mancherà questo posto, questa vita, quest’avventura. Eravamo in macchina a parlare di vita e di morte da circa un paio d’ore, aspettando che fosse ora di uscire con gli altri pargoli della squadra, quando si è improvvisamente rabbuiata:”I’m not gonna be on the ski team next year”. Le ho chiesto come mai, e mi ha risposto che lascerà perché tanto io non ci sarò, e senza di me la squadra non le interessa “and I’ll miss you so much, why don’t you stay”.
Se potessi Kasey. E’ stata dura lasciare la mia vita italiana, molto più di quanto pensassi, ma ora mi chiedo quanto farà male lasciare la mia vita americana, che non potrò rivivere mai più? Quanto sarà dura salutare amici e non poter dire loro che li rivedrò presto?
Non credo di volerlo sapere.
Ho passato la metà del programma, ora mancano meno giorni al mio ritorno di quelli che ho speso qua, fa un po’ troppa paura come cosa. Dicono che negli Stati Uniti si pianga due volte: quando si arriva e quando si torna; credo sia verissimo anche se grazie a Dio il ritorno non l’ho ancora vissuto.
Ho capito che la chiave di questa esperienza è avere coraggio; in aereo diretta a New York ho visto la nuova edizione di Cenerentola solo perché piace alla mia mamma italiana (si avevo bisogno di partire per un anno per imparare ad apprezzare il suo essere bizzarra e non solo) e mi ricordo che la frase centrale, perfetta per quel momento e perfetta per la vita è ‘abbi coraggio e sii gentile’.
Il coraggio lo ho, sulla gentilezza giuro che ci sto lavorando.
(Buon Febbraio, qua ogni singolo mese che passa a un valore inestimabile)